L’archeologia della SOFFERENZA: UMANIZZARE LA MALATTIA e la morte, parole sull’eutanasia.
https://purgatorio.altervista.org/doc/varie/museo/museodelpurgatorio/6.html
Ho trovato in una rivista cattolica, forse il miglior estratto sulla dottrina sociale dei nostri tempi, in più, un articolo <<Dove nascono le ingiustizie globali – La lezione indigena>> firmato da un sacerdote della diocesi di Ventimiglia inserito sotto Don Rito Alvarez
Priorità al rispetto della persona e alla solidarietà
Il bene comune presuppone il rispetto della persona in quanto tale, con diritti fondamentali e inalienabili ordinati al suo sviluppo integrale. Esige anche i dispositivi di benessere e sicurezza sociale e lo sviluppo dei diversi gruppi intermedi, applicando il principio di sussidiarietà. Tra questi risalta specialmente la famiglia, come cellula primaria della società. Infine, il bene comune richiede la pace sociale, vale a dire la stabilità e la sicurezza di un determinato ordine, che non si realizza senza un’attenzione particolare alla giustizia distributiva, la cui violazione genera sempre violenza. Tutta la società – e in essa specialmente lo Stato – ha l’obbligo di difendere e promuovere il bene comune.
Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante inequità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri.
Questa opzione richiede di trarre le conseguenze della destinazione comune dei beni della terra, ma […] esige di contemplare prima di tutto l’immensa dignità del povero alla luce delle più profonde convinzioni di fede. Basta osservare la realtà per comprendere che oggi questa opzione è un’esigenza etica fondamentale per l’effettiva realizzazione del bene comune. (Francesco, Enciclica Laudato Sii, nn. 157-158).
La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. (Francesco, Enciclica Laudato Sii, n. 189)
La dignità di ogni persona e il bene comune sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la politica economica, ma a volte sembrano appendici aggiunte dall’esterno per completare un discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale. Quante parole sono diventate scomode per questo sistema!
Dà fastidio che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si parli di difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli, dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia. Altre volte accade che queste parole diventino oggetto di una manipolazione opportunista che le disonora.
La comoda indifferenza di fronte a queste questioni svuota la nostra vita e le nostre parole di ogni significato. La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni di questo mondo. (Francesco, Esortazione ap. Evangelii Gaudium, n. 203)
Una delle definizioni più chiare di cosa sia il” bene comune” la troviamo nel Catechismo della Chiesa cattolica, l’articolo 1906, citando la Costituzione del concilio Vaticano II Gaudium et spes (n. 26) dice:
<<Per bene comune si deve intendere l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente. Il bene comune interessa la vita di tutti. Esige la prudenza da parte di ciascuno e più ancora da parte di coloro che esercitano l’ufficio dell’autorità>>.
I tre elementi essenziali che esso comporta sono:
- Il rispetto della persona, affinché realizzi la propria vocazione nell’esercizio della libertà naturale ricevuta
- Il benessere sociale e il suo sviluppo perché ogni persona possa condurre una vita dignitosa accedendo a cibo, vestiti, lavoro, cultura, possibilità di formarsi una famiglia …
- La pace, in quanto offerta di stabilità e sicurezza all’interno di un ordine giusto.
L’uomo civico, a differenza dell’uomo corruttore, è responsabile del bene comune, pur sapendo che spetta allo Stato di difenderlo e promuoverlo, ordinando l’ordine delle cose a quello delle persone, e non il contrario. La finalità ultima che il bene comune deve perseguire è il progresso delle persone, la promozione della loro vita: una vita che si compie nella tutela dei beni particolari e dell’indivisibile bene comune, il quale è di tutti e di ciascuno.
Come dice il Compendio di Dottrina sociale della Chiesa al n. 164: <<Come l’agire morale del singolo si realizza nel compiere il bene, così l’agire sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune>>.
Le due cose sono indisgiungibili ed è per questo che parafrasando Luciano Manicardi (Spiritualità e politica, 2019, p. 13) posso dire che non è vero che la gente sia troppo egoista, quanto piuttosto che non sa amare anzitutto sé stessa; che non è vero che siamo solo individui attenti ai nostri interessi, siamo invece persone che non conoscono ancora il proprio desiderio più profondo: quello di voler vivere di relazioni profonde, pacifiche, generose.
L’oblio del bene comune, la disparità di opportunità, l’avanzare della corruzione a livello di politica e di società civile, possono essere superati recuperando il valore e la serietà della “parola scambiata”, quale luogo di incontro e di impegno reciproco, nonché con la riscoperta della nostra identità più profonda: quella di essere creature costitutivamente di relazione.
Dal giornale <<Portavoce>> marzo 2020, Lettere Alla redazione Portavoce di San Leopoldo, firmato Massimo Ezio Putano
e-mail: direttore@leopoldomandic.it
– Piazzale S. Croce, 44 – 35123 Padova
14-15 agosto 2018 ho partecipato anche io – è una cosa favolosa, la recita va fatta da bambini di ogni nazione … la veglia per la MADRE dell’umanità
Questioni delicatissime. La vita, la morte, l’eutanasia
Non mi invento discorsi sul tema, qualcuno ha seguito il tema molto prima dei nostri giorni – per quello che è appena capitato in Italia, penso che in questo libro sono trattati argomenti più attuali che mai.
Riportiamo, alla pagina 44 – relazione francese:
“E’ legittimo, a nostro parere, affermare che il soggetto umano è caratterizzato dalla coscienza e dalla capacità di entrare in relazione con altri e che non c’è più vita umana quando ogni possibilità di coscienza e di relazione è definitivamente scomparsa: allora non c’è più un essere umano, un soggetto umano. Una tale affermazione rimette in discussione i criteri della morte attualmente riconosciuti, perché porta a dichiarare morto l’uomo in stato di coma irreversibile; ma essa deve essere sostenuta con energia, sotto pena di cadere in una concezione puramente biologica della vita umana.
Bisogna riconoscere il carattere teorico di questa affermazione, perché è molto difficile per i medici distinguere i coma irreversibili da quelli che non lo sono; le ricerche scientifiche non sono ancora sufficientemente progredite in questo campo. Ma le prese di posizione teoriche hanno tuttavia la loro importanza. Nel caso specifico, quella che noi sosteniamo inviterebbe i medici a riconsiderare il problema dei criteri della morte, a intraprendere le ricerche necessarie sulle differenti forme di coma; decolpevolizzerebbe coloro che interrompono le cure, nel caso in cui fossero pervenuti a una certezza almeno morale circa l’irreversibilità del coma.
Nelle situazioni che abbiamo appena evocate, il termine <<eutanasia>> è totalmente improprio: non si tratta qui d’addolcire una morte, né di mettere fine a una vita, ma di costatare la morte.
Saper non prolungare abusivamente la vita
Dopo questi problemi concernenti la morte, affrontiamo quelli che concernono i morenti, cioè gli esseri che vivono l’ultima fase della loro vita. Le condizioni nelle quali avviene questo <<morire>> sono state profondamente trasformate dalla medicina moderna, in particolare dalle tecniche di rianimazione e di cure intensive che permettono di supplire al venire meno della maggior parte di funzioni e di organi. Di fatto oggi la maggioranza di coloro che muoiono a casa loro o in un banale letto d’ospedale avrebbero potuto vedere la loro vita prolungata di diversi giorni, evidentemente al prezzo di molteplici interventi, di sofferenze che li accompagnano, dello sforzo di numerosi medici e infermiere, e delle spese che ne conseguono. L’agonia interminabile del generale Franco ne offre un triste esempio.
In questo contesto, l’espressione <<rispetto della vita>> deve essere usata con molte precauzioni. Fino a poco tempo fa una parte notevole del corpo medico considerava un <<dovere sacro>> prolungare la vita dei loro pazienti quanto più a lungo lo permettevano le loro tecniche, in nome precisamente di questo <<rispetto della vita>>. Questo atteggiamento non rappresenterebbe, in realtà, una forma di <<idolatria della vita>>, presa sotto il suo aspetto più biologico?
Queste cure intensive, infatti, il più delle volte non fanno che prolungare l’agonia in condizioni particolarmente penose: il rumore, la luce troppo viva, la mancanza di sonno, i prelievi incessanti, la dipendenza straordinaria di colui che è ventilato, nutrito, espurato artificialmente, braccia e gambe spesso immobilizzate, l’agitazione del personale, la sensazione crescente di sfinimento … e soprattutto la solitudine in cui questo universo tecnico rinchiude il malato. Questo è il prezzo che deve pagare il malato: e per quale beneficio? Qualche giorno in più d’una vita passata in tali condizioni, o forse anche peggiori, una sopravvivenza più lunga su cui pesano gravi handicap. Dopo Pio XII, è importante ripetere che nessuno è tenuto a ricevere tali cure, nessuno ha il dovere di imporgliele: il rispetto della vita umana comporta il rispetto della morte, quando è giunta la sua ora.
Di solito non si pensa abbastanza neppure al peso che si impone al personale infermieristico quando gli si domanda di prolungare nel tempo una lotta intensiva che appare come derisoria. Il lavoro infermieristico può essere certamente esaltante, malgrado le sue difficoltà, quando esiste la speranza di restituire qualcuno a una vita umana; ma è altrettanto demoralizzante lottare quando è scomparsa ogni speranza ragionevole, o quando gli sforzi appaiono smisurati in rapporto ai risultati che si possono ottenere. Prolungando abusivamente la vita di certi morenti si rischia di distruggere il morale di un’équipe infermieristica e di renderla incapace di prendere in carico altri malati per i quali queste cure intensive avrebbero ben più senso. Senza parlare delle spese per cure derisorie, mentre altre azioni prioritarie sono trascurate per mancanza di finanziamenti.
Diverse proteste si sono elevate, fortunatamente, da qualche tempo contro questo <<accanimento terapeutico>>. Esse cominciano anzi a produrre il loro effetto, e i professionisti del mondo della sanità ammettono sempre di più che è legittimo in certi casi astenersi da alcuni procedimenti terapeutici … Ciò pone loro molteplici problemi, difficili e pesanti da portare: infatti, come discernere le situazioni in cui quella certa terapia, gravosa e sfibrante per il malato, è giustificata, da quelle in cui non sarebbe ragionevole intraprenderla? <<La medicina non è una scienza esatta>>, ripetono giustamente molti medici; <<noi non possiamo sempre prevedere i risultati delle nostre decisioni terapeutiche>>.
Certamente, la decisione da intraprendere o di prolungare una terapia non dovrebbe essere presa dal solo medico, il desiderio del malato, il punto di vista della famiglia e delle infermiere sono importanti quanto il parere del tecnico che è il medico; ma uno degli elementi che giustificheranno le decisioni finali è la valutazione della situazione: bisogna riconoscere la difficoltà di questa valutazione.
E’ anche importantissimo far notare che il problema che si pone è sapere astenersi da tale o tal altra terapia, e non di cessare le cure. L’opinione pubblica si commuove troppo facilmente alla vista dei tubi che escono dal corpo dei malati; molto spesso questi strumenti non hanno per scopo che quello di addolcire gli ultimi momenti e di evitare al malato terminale le sensazioni atroci di asfissio o di sete intensa dovuta alla disidratazione: non si tratta allora né di sperimentazione sugli esseri umani, né di accanimento terapeutico, come molto spesso crede un’opinione pubblica male informata.
Alleviare la sofferenza
L’ostinazione a prolungare la vita dei malati si è unita negli ambienti ospedalieri, almeno in questi ultimi anni, a una relativa mancanza d’attenzione per la sofferenza. <<Il dolore in se stesso e la sua analisi precisa non sono, per noi, problemi nobili>>; <<in certi casi lasciamo soffrire il malato e ci abituiamo al suo soffrire>>, riconoscono con lucidità alcuni medici.
Questo atteggiamento non è sorprendente. Il problema dell’attenuazione delle sofferenze del malato, in realtà, è molto complesso e non basta, per risolverlo, una lunga somministrazione di analgesici. La sofferenza umana non è, infatti, un puro fenomeno fisiologico: essa è nutrita dall’apprensione di vedere crescere il dolore e dall’angoscia di colui che si sente gravemente minacciato nel suo corpo. E’ per questo che per alleviare la sofferenza è richiesto di saper maneggiare i trattamenti (medicazioni che vanno dall’aspirina alla morfina, interventi chirurgici, irradiazioni …), ma anche di calmare l’ansietà o l’angoscia del malato. Ciò implica una relazione personale con lui. Ora, la relazione col malato grave è angosciante per il personale curante, tanto più se la morte è prossima o la sofferenza ribelle ai trattamenti.
Sarebbe auspicabile che i teologi moralisti mostrassero che la sofferenza non ha valore in se stessa, anche se è talvolta il crogiolo nel quale l’uomo giunge a una maggiore maturità. Alcune espressioni correnti ci sembrano molto contestabili. Per esempio questa: <<Il Cristo ci ha salvato mediante le sue sofferenze>>; sarebbe già più giusto dire: <<attraverso le sue sofferenze>>, ma aggiungendo subito: <<Perché, attraverso di esse, e anche malgrado esse, conservò un atteggiamento di Figlio>>. Parlando così, non ci dichiariamo a favore dell’instaurazione di una società del benessere anestetizzata, che avrebbe soppresso ogni .
sofferenza; ci riferiamo piuttosto alle ultime parole del card. Veuillot: <<La gente di chiesa parla troppo facilmente della sofferenza>.
Un’altra difficoltà psicologica del personale curante ad affrontare il problema della sofferenza deriva dal fatto che la lotta per la vita e il trattamento del dolore appaiono troppo spesso come antagonisti. Anche medicalmente parlando, questa opposizione è talvolta contestabile: certe medicazioni presentano certamente il pericolo di abbreviare i giorni del malato, ma si dimentica che di per se stessa <<la sofferenza uccide>> e che colui che soffre troppo arriva ad augurarsi la morte e a <<lasciarsi andare>>.
Se uno dei doveri del personale curante è di lottare per la vita del malato, un altro dei suoi doveri, riconosciuto da sempre, è di alleviare la sofferenza del malato. Questo dovere può anche diventare prioritario. La posizione di Pio XII su questo punto è stata troppo dimenticata: <<Voi ci domandate: la soppressione del dolore e della coscienza mediante narcotici (allorché è richiesta da un’indicazione medica) è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’approssimarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)? Bisognerà rispondere: Se non esistono altri mezzi e se, nelle circostanze concrete, ciò non impedisce il compimento di altri doveri religiosi e morali: sì>>. Su questo punto della priorità in certi casi del trattamento della sofferenza sulla lotta per la vita, il personale curante ha bisogno attualmente di essere decolpevolizzato. Il prossimo Codice di Deontologia Medica vi contribuirà, il progetto attuale della nuova redazione del codice, infatti enuncia. <<La professione medica è al servizio dell’uomo, per la protezione della salute, per il trattamento delle malattie e delle ferite, per il sollievo della sofferenza, nel rispetto della vita umana e della persona umana>>. La redazione precedente era centrata troppo unilateralmente sul <<rispetto della vita>>.
Dal libro <<Umanizzare la malattia e la morte>>; Documenti pastorali dei vescovi francesi e tedeschi, commento di sacerdote, specializzato in teologia morale e psicologia, Sandro Spinsanti.Ed. Paoline 1980.
Oggigiorno, la medicina è in grado di distinguere una coma irreversibile, ma lasciando la porta aperta anche ad ogni miracolo, alla grazia che Dio può fare a ciascuno. La burocrazia non dovrebbe mai avere l’ultima parola. Quando si racconta della Passione di Cristo, ricordiamocelo tutti che non c’era nessuno nella sua difesa, nemmeno quelli beneficati, guariti, miracolati. Monsignor Alessandro Pronzato, nella Via crucis (più giù), dichiara che se non fosse quella donna, l’intrusa, colei che ha scavalcato le regole disumane, per ridare la dignità al VOLTO di Cristo, sarebbe da vergognarsi per tanta ferocia, un mondo imbestialito. Ma soprattutto donna, non fu un uomo a togliere la vergogna della massa, solo una donna ebbe il coraggio, anche questo ha un significato nei occhi di Dio.
Ad un santo sacerdote, Don Dolindo Ruotolo, la Madonna ha riferito che, sì, nello scenario della Passione, potevano restarci i discepoli, affrontare il pericolo per il loro Maestro, ma la paura era talmente grande che … Non fu Pietro testimone della bambina risorta, della Trasfigurazione, miracoli e guarigioni … ma anche stupito oltre modo, perché sapeva che era il Figlio di Dio, eppure non usava la Sua potenza. In quei momenti si giocava la grande partita, la divinità celata in carne umana, contro le potenze dell’inferno, senza questa partita … Nessuno poteva liberare le anime dal Lembo, Gesù ha mantenuto le promesse, personalmente. Come personalmente ha portato la Sua Madre, in anima e corpo nel Suo regno, l’Arca dell’Alleanza, Colei che ha custodito il Creatore, Lei ha dato la carne e il sangue a Gesù per diventare “uno di noi”.
VI Stazione (Don Alessandro Pronzato – Via Crucis del peccatore)
Il coraggio del gesto che non risolve nulla
La mistica della devozione al Sacro Capo di Gesù, Teresa Helena Higginson, Edizioni Segno 2018
Alla pagina 343, Appendice B. – Bilocazione
Un insolito Padre Pio
Alla pagina 151, del <<Padre Pio, Mistero Gaudioso>> Di Alessandro Pronzato, Gribaudi, 1998 leggiamo
Quando rubare non è peccato
Disposto ad andare in prigione per conto terzi
Credo che a nessuno sia mai venuto in mente di accusare padre Pio di eccessiva condiscendenza in fatto di dottrina morale. Semmai l’opposto. Era esigente, inflessibile, intransigente. Non demordeva dai principi, anche se sapeva calarli nelle situazioni concrete.
Eppure, quando si trattava di giustizia, sovente assumeva posizioni che sconcertavano o addirittura scandalizzavano i benpensanti. Tipica questa discussione ingaggiatasi tra i suoi frati.
Uno di loro racconta che, prima di entrare in convento, in una certa occasione delicata, aveva prelevato abusivamente dalla cassa del collegio, di cui aveva la responsabilità, la somma di 500 lire (siamo nel 1926!) per imprestarle a una gentildonna ridotta in condizioni di miseria e minacciata di sfratto, insieme alle sue figlie, dal padrone di casa, esoso fino alla disumanità.
In seguito, la nobildonna non aveva più avuto la possibilità di restituire il prestito. E lui, a motivo di quel vistoso ammanco di cassa, aveva dovuto subire il biasimo e le minacce dei superiori.
Tra i presenti c’è un frate noto per la sua severità e il suo rigore. Costui interviene immediatamente esprimendo la propria disapprovazione per il comportamento del confratello. Si tratta, secondo la sua opinione, né più né meno che di una lampante trasgressione del comandamento “non rubare”.
Naturalmente, nell’accesa diatriba che ne segue, tutti sollecitano il parere di padre Pio. Il quale non si fa pregare per far conoscere il proprio pensiero non propriamente “ortodosso”:
<<E lei chiama furto, questo? …>> esordisce, prendendo di petto il cappuccino moralista irriducibile. Quindi, accalorandosi sempre più, prosegue:
<<Se io sapessi che i componenti di una famiglia muoiono di fame e vengono buttati in strada da una siffatta canaglia, con tutte le conseguenze che potrebbero derivare per quei poveretti messi sul marciapiede, sarei il primo ad andare a rubare a casa di questa iena. E l’indomani andrei a trovarla e le direi: “Ecco, sono io che ti ho derubato. Adesso fai quello che ti pare. Mettimi pure in prigione”>>.
L’antagonista rimane interdetto di fronte a questa inaspettata arringa difensiva di padre Pio, noto finora per non essere affatto conciliante quando si tratta di proprietà privata. Obietta:
<<Padre mio, questo è furto! …>>.
<<No, in un caso simile, questo non è rubare …>>.
L’altro concede:
<<Io comprendo come si possa rubare alla comunità un pezzo di pane … Ma qui si tratta di 500 lire, mica bazzecole!>>.
Padre Pio, però, non si sposta di una virgola dalla propria posizione:
<<In un caso tanto angoscioso, io mi sentirei di prendere i soldi tranquillamente a chiunque. Le miserie più terribili non riguardano tanto il pane … Sovente, specialmente nelle città, si verificano questi casi in cui la gioventù, e in particolare le fanciulle, si perdono perché cacciati in situazioni drammatiche e ridotti alla disperazione. IO ho conosciuto delle sciagure così terribili che avrei fatto qualunque cosa per aiutare quei disgraziati …>>.
Voleva dire: sarei stato capace di furto per conto terzi.
Detto da un frate che non teneva certo le maniche larghe …
Che stupido a farsi beccare: la Madonna non aveva bisogno di quei gioielli …
Sul solito terrazzo del convento, il solito drappello di amici, con sempre qualche nuovo acquisto, commenta un episodio di cronaca nera che sta in prima pagina su tutti i giornali: un giovane squinternato e squattrinato, in una chiesa romana, ha spogliato l’immagine della Madonna dei gioielli e degli ornamenti preziosi.
L’opinione generale tende a bollare con parole di fuoco quello che viene definito “furto sacrilego”. Soltanto padre Pio tace. Sollecitato da sguardi inequivocabili a esprimere il suo giudizio, fa rimanere di stucco gli amici disputanti con questa sentenza di totale assoluzione:
<<Cosa volete che vi dica? Quel povero giovane forse avrà avuto fame e sarà andato alla Vergine per dirle. “A te che cosa serve tutto quest’oro?”. E la Madonna, che queste cose le capisce, glielo ha detto … Stupido lui che si è fatto beccare con il malloppo in tasca …>>.
Difensore della povera gente
Padre Pio, che è nato e vissuto in un ambiente di gente contadina, di condizione modesta, possiede uno spiccato senso della giustizia. Istintivamente si schiera dalla parte dei deboli e dei poveri.
Una volta – come abbiamo raccontato nel capitolo “Incontri e scontri” – compirà addirittura un gesto clamoroso prendendo a calci nel fondo schiena un giudice che ammetteva tranquillamente di aver venduto delle sentenze, ossia di essersi lasciato corrompere per denaro, facendolo rotolare rovinosamente giù per le scale del convento.
Alla pagina 132;
Chissà che non spuntino le corna …
Un signore riferisce a padre Pio che, avendo manifestato a un famoso scienziato di Firenze (il prof. Lunedei, tanto per fare nomi) la propria intenzione di recarsi in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, si sentì rispondere in tono sprezzante:
<<E vorresti fare tutto questo viaggio per andare da quell’isterico? …>>.
<<Come sarebbe a dire? …>>.
<<Sì, proprio isterico. La scienza lo classifica precisamente in questo modo. Non c’è altra spiegazione …>>.
<<Ossia?>>.
<<La cosa è semplice: quel frate, a forza di pensare con particolare intensità al Cristo crocifisso, ha fatto sì che gli venissero le stigmate. Elementare … almeno per noi, uomini di scienza. Mica ci lasciamo impressionare da questi fenomeni, come la gente credulona>>.
Padre Pio non si scompone nell’ascoltare quel giudizio saccente. Alla fine, propone:
<<Quando ti capita di vedere quel professore, digli che pensi intensamente di essere un bue. E poi stiamo a vedere se gli spuntano le corna …>>.
A proposito di stigmate
Sempre in tema di domande petulanti. Un tale si informa se gli fanno male le stigmate. La risposta, stavolta, arriva in tono bonario:
<<E che credi, figlio mio? Che il Signore le mandi per giocarci a palla?>>.
Il prof. Amico Bignami, pensando forse di metterlo in imbarazzo, gli pone una questione difficile:
<<Mi dica, padre mio. Perché tenete queste lesioni esattamente lì e non altrove?>>.
Padre Pio, con un sorriso astuto, indaga a sua volta:
<<Mi risponda piuttosto lei, dottore: perché dovrei averle altrove e non lì?>>.
A un fotografo, invece, che pretende di fotografarle, replica, secco:
<<Bello mio, le hai prese per croci di commendatore? …>>.
“Allora sono proprio una canaglia!”
<<Padre, padre, se siete veramente buono come dicono tutti, allora fatemi la grazia. Voi potete tutto>>.
Padre Pio stavolta si spazientisce, è quasi indignato, e arronza bruscamente la donna che lo supplica in quella maniera:
<<Insomma, figlia mia, tu mi stai dicendo che sono una canaglia patentata>>.
<<Ma cosa dice mai, padre? Io non intendevo offendervi …>>.
<<No, tu hai proprio voluto dire che sono una canaglia. Infatti, se posso tutto e non faccio ciò che posso, allora vuol dire che sono proprio questo. Una canaglia … Una ca-na-glia>>.