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Lavorare nel mondo è lavorare contemporaneamente anche nella vigna del Signore

Lavorare nel mondo …

Venirti naturale

Il mio “lavoro” non esiste nell’infinità di mestieri, non potrei nemmeno descriverlo ad altri – perché è un lato della natura umana e basta. Se io cerco tra miei quaderni da bambina, provo ancora solo annotazioni di ogni genere legate alla saggezza e sapienza della cultura, del cuore, del popolo, dei contadini.

La sapienza umana, che non è frutto dello studio scolastico, fu per me una calamita. Ho incontrato anche la saggezza di chi non sapeva né scrivere, né leggere, non avrei creduto, perché i soldi sapeva contarli benissimo, non sapeva trascrivere le cifre, i calcoli sulla carta … un mistero.

Chi è nato sotto una dittatura comunista atea, chi ha già visto dittatori giustiziati da un popolo stanco di menzogne, ha un modo diverso di valutare qualsiasi “notizia”, filtra col cuore tutto.

Avere questa saggezza e saperla esprimere per ogni categoria sociale, con “semplice parole”, usando parabole, paragonando un concetto di alta spiritualità con un fatto semplice semplice, a portata di mano di tutti, fa sì che anche il non dotto, il non studioso, comprenda quello che Gesù aveva detto ormai più di duemila anni fa. Tutta la sua teoria dei tempi è attualissima ad ogni epoca e lo sarà sino alla fine dei tempi.

Quello che io ho sempre cercato, era di trovare il modo e di farlo, costruire in un solo libro, a modo mio, mettendo insieme autori che sono riusciti a dimostrare nel modo più fedele, insomma, tradurre più fedelmente in parole povere, l’altissimo insegnamento che Gesù ci ha lasciato. Essere contenti che non ci ha mai lasciato orfani della Sua parola, ogni secolo ha Suoi <<uomini di Dio>>, poiché alla santità è chiamato ciascuno. Tra suoi milioni di seguaci, fedelissimi, ho appena scoperto Giovanni Vannucci – nel <<Risveglio della Coscienza>>  Servitium editrice, 1997 e dai suoi racconti, dalle sue similitudini mi rendo conto che era un uomo pieno dello Spirito Santo: parla al cuore umano, del cuore umano, della fratellanza tra popoli … parole condite col sale divino.

La conoscenza di tutte le conoscenze, la chiave di tutte le chiavi è questa: conoscere nel proprio mistero il mistero che tortura l’anima del fratello che ci siede accanto; fare della tortura del nostro fratello la nostra tortura, fare della gioia del nostro fratello la nostra gioia. Allora la divina realtà dell’amore trionfante irradierà le coscienze: non vi sarà più né mio né tuo, né padrone né servo, né oppresso né oppressore, non vi sarà più il male, perché il male è uno solo: quello che soffre l’altro e che tu, per nessuna cosa al mondo, vorresti causare né causerai”.

Gli scribi e i farisei

Peter D. Ouspensky, nel suo libro Colloqui con un diavolo, racconta che un giorno un diavolo che accompagnava Satana in un suo viaggio sulla terra, vide un uomo che lungo la strada aveva raccolto un frammento di verità. Stupito dell’indifferenza di Satana, gli domandò perché non aveva impedito all’uomo di prendere quel minuzzolo luminoso. <<Non ti preoccupare>> disse Satana, <<ci penseranno gli stessi uomini, con i commenti, le deduzioni moralistiche, le traduzioni in cornici rituali, a togliere ogni efficacia alla particella di verità trovata>>.

Forse è questa la dolorosa vicenda della verità sulla faccia della terra. Agli inizi c’è il grande e fertile silenzio; dal silenzio sgorga una parola; dalla parola le parole, dalle parole i libri sacri, dai libri sacri i commentari, da questi le glosse ai commenti; finché dalla babele delle parole sorge qualche spirito che rifà tutto il percorso a rovescio, fintanto che non ritrovi il primo silenzio e la prima parola e incontri il Maestro unico.

                La realtà profonda dell’universo terrestre lungo il corso dei secoli è l’approfondimento del rapporto tra la coscienza umana e il mistero dell’Essere. Rapporto che non viene celebrato nel livello storico-sensoriale-razionale, ma in quello psichico. Lo spirito umano brama l’incontro con la Parola discesa nelle radici carnali del nostro essere, e non con una o più definizioni del suo mistero soprarazionale. Il fuoco ardente della Parola incarnata stimola la trasfigurazione della persona umana che, in se stessa pavida e schiava di sofismi, preferisce innalzare delle difese che la lascino tranquilla nella sua immobilità.

                Gli scribi, eccellenti archivisti delle interpretazioni, compiono un sottile lavoro per tradurle e conservarle in enunciati morali chiari e immutabili; i farisei, dediti al lavoro di sistemazione razionali della particella di luce rivelata, la collocano in raffinate custodie di parole casellate, così da fermare per sempre il vorticoso movimento (cf. Mt 23, 1-12).

                L’autore dell’Apocalisse di Baruk ordina ai sacerdoti di lanciare verso il cielo la chiave del santuario, domandando a Dio di custodire lui stesso la sua casa non essendo loro riusciti a farlo.

                Il Vangello di Tomasso dichiara infelici gli scribi e farisei, simili a un cane che si è sdraiato in una mangiatoia piena di fieno, non mangia e non permette ai buoi di mangiare.

                Sarebbe un grosso abbaglio il pensiero di circoscrivere gli scribi e i farisei al solo ambiente storico di Gesù Cristo: essi sono le figure emblematiche di quella ricorrente categoria di uomini che, con le migliori intenzioni, si sentono chiamati ad addomesticare l’impeto di una parola viva affidata agli uomini.Bi sogna imparare a guardarsi dagli scribi e dai farisei, le cui parole non sono la traduzione della parola vissuta, ma giochi di parole morte. Non tutti quelli che parlano dello Spirito sono spirituali; non tutti quelli che parlano della Parola incarnata la incarnano.

Due sono le forme mentali per avvicinare il mistero divino: la sapienza del saggio e la semplicità del fanciullo. Al saggio è richiesto di non dire una parola in più di ciò che ha sperimentato.

                Gli ebrei avevano la dottrina di Mosè che era buona, ma seguivano l’interpretazione dei farisei e degli scribi che non era buona, la tradizione creata dalla falsa scienza aveva preso il posto della vera conoscenza.

  • L’astuzia sostituiva l’intelligenza;
  • La tortuosità del sofisma la chiarezza della legge;
  • Il raggiro prendeva il posto del diritto, tutto condito con l’olio dell’ipocrisia e il vino della concupiscenza;
  • L’apparenza della virtù e della giustizia in luogo della virtù e della giustizia;
  • Il pagamento delle decime al posto della cura verso l’orfano e la vedova.
  • Le abluzioni potevano sostituire la giustizia non resa,
  • L’offerta al tempio poteva esimere d’aver cura dei propri genitori.

Tutto può essere sovvertito con il sofisma astuto, con l’abile gioco di una logica apparente, con la scaltrezza del cavillo sottile; tutto, anche il vangelo  di Cristo, la parola dello Spirito, la verità di Dio! Quando la parola non viene chiusa dalle trappole accomodanti costruite dalla pigra mente umana, e scende libera in cuori aperti e vivi, intraprende un soliloquio con essi, il cui frutto è l’avvicinamento, senza mediatori, dell’uomo che vive nel tempo e l’eternità che ne è fuori. La verità eterna diventa esperienza e constatazione, e il suo annuncio è liberazione.

Lettera a Diogneto: <<Ciò che è l’anima nel corpo, questo sono i cristiani nel mondo. L’anima agisce in tutte le membra del corpo, e i cristiani nelle città e nel mondo. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo: e i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo>> (VI, 1).

Nessuno nota bene lo stato delle cose, in un certo posto, paese, comunità, azienda – che solo chi arriva da fuori. Chi vive, convive giornalmente con una certa situazione, non è capace di notare oggettivamente quello che non funziona. Se incontrate una persona dopo alcuni mesi, notate qualcosa di diverso. Se incontrate giornalmente la stessa persona, difficilmente vi salterà nell’occhio il cambiamento.

                Adesso, ancora di più chi è straniero e trova tutto un altro mondo, di quello che aveva sentito nei racconti altrui, letto, visto documentari e varie. Una è attraversare un paese, anche mille volte, visitare, albergare … altro è vivere, convivere per anni con persone di quella nazionalità. Essere turista mordi e fuggi non ha nulla a che vedere con chi è alla conoscenza del bello e del brutto di quelle terre. Tutto il mondo è paese.

Ogni volta che sento parlare in terminologia generica: <<il male prevale il bene>>, <<guarda quanti mali succedono …>>, mentre il bene,  non fa notizia, io dico sempre: calma. Ogni male, non è generico, ha un suo autore con tanto di nome e cognome. Chi lavora dalla parte del male, lavora semplicemente alla rovina della sua famiglia e della propria anima. Vale la pena lavorare per la tua rovina?

L’arte d’inciucio, della persuasione, della truffa e raggiro, non ha nulla da invidiare. Se tu sei arrivato nel posto dove ti trovi, grazie alle relazioni e conoscenze, mangi un pane senza sapore.

AVIS LORETO DONAZIONE SANGUE – Scultore E. Mugnoz

Anche a me fu offerta l’opportunità di mangiare un simile pane, ma da cristiana mi restava nella gola, ho rifiutato di vivere mangiando quel pane. Poi ho incontrato chi deruba i lavoratori con metodi ancora più sofisticati, è sempre un derubare il povero, lo straniero, raggirandolo con terminologie e inciuci contrattuali che sono solo degni di vergogna, eppure c’è chi si vanta del pane che mangia, grazie a questi lavori. Solo da vergognarsi, perché si mangia un pane intriso di lacrime e maledizioni da chi ha sofferto e non ha potuto difendersi da simili raggiri. Il Signore ripagherà  a modo Suo, anche questa categoria di lavoratori, poiché se lo vogliamo oppure no, lavoriamo tutti alla Sua vigna, estesa in tutto il mondo.

Il lavoratore in terra straniera è conosciutissimo a Gesù, anche Lui fu figlio di Giuseppe e Maria in terra di esilio, Egitto, non per un giorno o mese, ma per anni. Emigranti in pericolo di vita per Lui, per difendere la Sua vita.

A LORETO ITALIA

Parlando dei lavoratori nella Sua vigna

Vi presento la parabola:

 I primi e gli ultimi dal libro, Risveglio della coscienza di Giovanni Vannucci, ED. Servitium.

“La parabola riportata in Mt 20, 1-16, per certi particolari e per il contenuto di fondo, si ricollega a quella del figlio prodigo e del pastore che, lasciando le novantanove pecorelle, va in cerca di quella smarrita.

Il figlio maggiore, le novantanove pecorelle, rimasti sempre nella casa paterna e nell’ovile, non hanno conosciuto le angosce, le umiliazioni, gli avvilimenti del prodigo e della pecorella smarrita.

Così gli operai della prima ora patteggiano liberamente il prezzo, ignorano la pena di veder passare le ore senza essere ricercati, di veder arrivare la sera e la notte senza aver lavorato; gli altri non sanno come verranno pagati, accettano il lavoro, felici di poter guadagnare qualcosa. Gli operai dell’undicesima ora avevano atteso tutto il giorno che qualcuno li cercasse; se i primi avevano durato la fatica e il gran caldo, gli altri avevano conosciuto l’avvilimento e l’angoscia dell’inutile attesa. Giustamente agisce il padrone della vigna, giustamente rimprovera gli insoddisfatti: <<Vedi tu di malocchio ch’io sia buono? Non mi è lecito di fare del mio quello che voglio?>>.

Spesso si vive un’ intera vita senza interessarsi ai massimi problemi del nostro essere. Blandamente, con indifferenza, si seguono le leggi del proprio paese e i riti della propria religione, senza preoccuparsi di approfondire gli uni e gli altri. Più che vivere si è vissuti, più che pensare si è pensati e, come gli operai della parabola, si aspetta qualcuno che ci cerchi, qualcuno che ci faccia lavorare, finché  qualcuno giunga. Talora il padrone che ci manda alla sua vigna può chiamarsi sventura, malattia, miseria, dolore! Giungerà colui  che ci domanderà: <<Perché ve ne state ancora inoperosi?>>; risponderemo: <<Nessuno ci ha presi a giornata ed è già l’ultima ora del giorno>>. Ed egli ci dirà: <<Andate anche voi nella vigna>>.

L’operaio dell’undicesima ora non è soltanto, come comunemente s’intende, il peccatore che si converte all’ultima ora. Ordinariamente è l’uomo buono, intelligente, spesso colto, spiritualmente disoccupato; l’uomo cioè privo di idealità, non perché ne sia incapace, ma perché sino ad allora nessun vero ideale gli si è presentato. E di questi uomini ne esistono in tutte le razze e in tutte le religioni.

Spesso, dopo una vita inutile e vuota, con un richiamo improvviso, come un bagliore sopra gli occhi chiusi, comincia il lavoro dello spirito. Che esso duri molto o poco non importa, importante che esso ci sia, importa che tutta la giornata terrena non sia conclusa nell’ozio. Così vediamo persone anziane, vissute fino ad allora tranquille, che di colpo, come obbedendo a un richiamo, si gettano in attività, si dedicano a studi cui mai avrebbero pensato, si interessano appassionatamente al mondo che le circonda, e, con uno slancio in cui è contenuta una vera gratitudine, lavorano nella vigna del Signore.

Bambini senza frontiere Carmenwebdesign

L’operaio dell’undicesima ora è stato chiamato e ha risposto, avrebbe risposto prima, se fosse stato cercato. L’operaio dell’undicesima ora non dice mai: <<E’ tardi>>, ma risponde sempre. <<Eccomi!>>.

Il premio degli ultimi sarà giustamente uguale a quelli dei primi, poiché attendere di essere chiamati e mantenersi liberi con l’animo di aderire al richiamo, è già lavorare.

La parabola termina con un aforisma che ci deve far pensare: <<Gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi>>. Perché questa predilezione divina verso gli ultimi? Spesso mi chiedo: verso chi andavano le preferenze di Gesù morente sulla croce: al buon ladrone o all’altro che accetta fino in fondo le conseguenze della sua vita delittuosa? Il primo, in qualche maniera, approfitta di Gesù: <<Ricordati di me quando sarai nel tuo regno>>; il secondo vive fino all’estremo la sua scelta di libertà. E non è una domanda retorica questa, facciamocela e forse riusciremo a spogliarci di tutte le nostre albagie di figli buoni e di operai della prima ora!

Spesso lo stato d’animo dei figli prodighi, degli operai dell’ultima ora, corrisponde a quello che Omar Khayam descrive in un suo poema: <<Ho visto un uomo solitario in un luogo arido. Non era né eretico, né ortodosso. Non aveva né ricchezza, né religione, né Dio, né verità, né legge, né certezze. Chi in questo modo è capace di tanto coraggio?>>.

Quando questi uomini entrano nella vigna, vi portano il loro coraggio, la loro forza, la loro dedizione, che hanno raggiunto in una solitudine libera e spoglia.

Allora <<gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi>>. Gli ultimi non porteranno nel regno le meschinerie, le rivalità, le ambizioni dei primi!”

Secondo me, una nuova visione a 360°, concludo con la definizione più bella del cristiano nel mondo:

  • “E’ IMPOSSIBILE infatti affrontare, senza bagagli ideali forti, le frontiere della bioetica, della pace, dello sviluppo, della giustizia, della scienza, dell’ambiente … e ancora oltre. L’inerzia dell’anima toglie il terreno a qualsiasi visione e, alla fine, mette in pericolo le stesse basi per edificare un paese saldo e robusto. Dovrebbero farci pensare l’assenza di speranza, la rassegnazione al mondo così com’è, l’incapacità di pensare al bene comune di tutti.” Vincenzo Paglia

Da leggere (Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali) dello studioso Alberto Asor Rosa

http://www.kainos-portale.com/index.php/11-ignoranza-e-cultura/59-recensioni/157-alberto-asor-rosa-il-grande-silenzio-intervista-sugli-intellettuali

LAVORO NELLA VISIONE DI DON PRIMO MAZZOLARI

Il testamento di don Primo Mazzolari

Oggi, 4 agosto 1954, undicesimo anniversario della morte di mio padre, nel nome del Signore e sotto lo sguardo della Madonna, che non può non aver pietà di questo suo povero sacerdote che si prepara al distacco supremo, faccio testamento. Non possiedo niente. La roba non mi ha fatto gola e tanto meno occupato. Non ho risparmi, se non quel poco che potrà si e no bastare alle spese del funerali che desidero semplicissimi, secondo il mio gusto e l’abitudine della mia casa e della mia Chiesa. Le poche suppellettili, che sono poi quelle dei miei vecchi, appartengono alla mia sorella Giuseppina, che le ha conservate usabili e ospitali con la sua instancabile operosità e intelligente economia. Alle mie sorelle Colombina e Pierina, che avrebbero fatto altrettanto, se non avessero avuto diversa chiamata; ai miei nipoti Michele, Enrico, Gino, Mariuccia, Giuseppina, Graziella l’impegno di custodire e continuare, più che la memoria del fratello e dello zio sacerdote, la tradizione cristiana delle nostre case, cui mi sono sempre affidato e che nelle molte difficoltà fu per me una grazia naturale.

Non ho niente e sono contento di non aver niente da darvi. Lo scrivo anche per vostra compiacenza per quella certezza che abbiamo in comune, che dove il vincolo dell’affetto è soltanto spirituale, sfida il tempo e si ritrova con diritto di misericordia al cospetto di Dio. Intorno al mio Altare come intorno alla mia casa e al mio lavoro non ci fu mai “suon di denaro”: il poco che è passato nelle mie mani – avrebbe potuto essere molto se ci avessi fatto caso – è andato dove doveva andare. Se potessi avere un rammarico su questo punto, riguarderebbe i miei poveri e le opere della parrocchia che avrei potuto aiutare largamente: ma siccome ovunque ci sono poveri e tutti i poveri sono del Signore, sono certo che Egli avrà cura anche della mia sorella Giuseppina, che, dopo una vita spesa in un modo mirabile per me e per la Chiesa, è come un uccello su di un ramo. Se non avessi una fiducia illimitata nella sua bella generosità; se non conoscessi le meravigliose risorse della sua intelligente operosità; se non sapessi l’affetto che le portano le mie sorelle e miei nipoti, non riuscirei a perdonarmi tanta imprevidenza.

Chiudo la mia giornata come credo di averla vissuta in piena comunione di fede e di obbedienza alla chiesa e in sincera e affettuosa devozione verso il Papa e il Vescovo. So di averla amata e servita con fedeltà e disinteresse completo. Richiamato e ammonito per atteggiamenti o opinioni non concernenti la dottrina, ottemperai con pronto ossequio.

Se il mio franco parlare in problemi di libera discussione può aver dato scandalo; se la mia maniera di obbedire non è parsa abbastanza disciplinata, ne chiedo umilmente perdono, come chiedo perdono ai miei superiori di averli involontariamente contristati e li ringrazio d’aver riconosciuto in ogni circostanza la rettitudine delle intenzioni. Nei tempi difficili in cui ebbi la ventura di vivere, un’appassionata ricerca sui metodi dell’apostolato è sempre una testimonianza d’amore, anche quando le esperienze non entrano nell’ordine prudenziale e pare non convengano agli interessi immediati della Chiesa.

Sono malcontento di avere fatto involontariamente soffrire, non lo sono d’aver sofferto. Sulle prime ne provai una punta d’amarezza: poi, nell’obbedienza trovai la pace, e ora mi pare di potere ancora una volta, prima di morire, baciare le mani che mi hanno duramente e salutarmente colpito.

Adesso vedo che ogni vicenda lieta o triste della mia travagliatissima esistenza, sta per trovare nella divina Misericordia la sua giustificazione anche temporale. Dopo la Messa, il dono più grande: la Parrocchia. Un lavoro forse non congeniale alla mia indole e alle mie naturali attitudini e che divenne invece la vera ragione del mio ministero, la buona agonia e la ricompensa “magna nimis” di esso. Non finirò mai dl ringraziare il Signore e miei figliuoli di Cicognara e di Bozzolo, i quali certamente non sono tenuti ad avere sentimenti eguali verso il loro vecchio parroco. Nel rivedere il mio stare con essi, benché mi conforti la certezza di averli sempre e tutti amati come e più della mia famiglia, sul punto di lasciarli mi vengono davanti i miei innumerevoli torti. Benché non abbia mai guardato con desiderio al di là della mia parrocchia, né stimato più onorevole altro ufficio, non tutta e non sempre è stata limpida e completa la mia donazione verso i miei parrocchiani.

Lo stesso amore mi ha reso a volte violento e straripante. Qualcuno può aver pensato che la predilezione dei poveri e dei lontani mi abbia angustiato nei riguardi degli altri: che certe decise prese di posizione in campi non strettamente pastorali mi abbiano chiusa la porta presso coloro che per qualsiasi motivo non sopportano interventi del genere. Nessuno però dei miei figlioli ha chiuso il cuore al suo parroco, che si è visto fatto segno di contraddittorie accuse, sol perché ci teneva a distinguere la salvezza dell’uomo e le sue istanze anche quelle umane, da ideologie che di volta in volta gli vengono imprestate da quei movimenti che spesso lo mobilitano controvoglia. Ho inteso rimanere in ogni circostanza sacerdote e padre di tutti i miei parrocchiani: se non ci riuscii, non fu per mancanza di cuore, ma per le naturali difficoltà di farlo capire in tempi iracondi e faziosi. Se non mi sono unicamente dedicato al lavoro parrocchiale, se ho lavorato anche fuori, il Signore sa che non sono uscito per cercare rinomanza, ma per esaurire una vocazione, che, pur trovando nella parrocchia la sua più buona fatica, non avrebbe potuto chiudersi in essa. Del resto, le pene d’ogni genere che mi sono guadagnato scrivendo e parlando, valgano presso i miei figliuoli a farmi perdonare una trascuratezza che mai non esistette nell’intenzione e nell’animo del loro parroco.

Il tornare a Bozzolo fu sempre per me tornare a casa e il rimanervi una gioia così affettuosa e ilare che l’andarmene per sempre l’avverto già come il pedaggio più costoso. Eppure, viene l’ora e, se non ho la forza di desiderarla, è tanta la stanchezza che il pensiero d’andare a riposare nella misericordia di Dio, mi fa quasi dimentico della sua giustizia, che verrà placata dalla preghiera di coloro che mi vogliono bene. Di là sono atteso: c’è il Grande Padre Celeste e il mio piccolo padre contadino. La Madonna e la mia mamma. Gesù morto per me sul Calvario e Peppino morto per me sul Sabotino. I santi, i miei parenti, i miei soldati, i miei parrocchiani. I miei amici tanti e carissimi. Verso questa grande Casa dell’Eterno, che non conosce assenti, m’avvio confortato dal perdono di tutti, che torno a invocare ai piedi di quell’Altare che ho salito tante e tante volte con povertà sconfinata, sperando che nell’ultima Messa il Sacerdote Eterno, dopo avermi fatto posto sulla sua Croce, mi serri fra le sue braccia dicendo anche a me: “entra anche tu nella Pace del tuo Signore”. dal sito https://fondazionemazzolari.it

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